In un testo teatrale satirico del 1920, il ceco Karel Čapek scriveva: Se i cani sapessero parlare, avremmo con loro le stesse difficoltà che abbiamo con la gente. Una concezione fin troppo pessimista della realtà se riferita ai primi decenni del Novecento, la cui validità non sarebbe poi da ritenere tanto assurda nel mondo contemporaneo degli anni Duemila. E’ la società degli umani ed il sistema di vita a cui si sta uniformando nella pretesa illusoria di progredire comunque indipendentemente dalla direzione da seguire, sia essa evolutiva che involutiva. Allettati o meglio ipnotizzati dal potere alcaloideo dei trastulli informatici ci sforziamo di costruire umanoidi, androidi, cyborg, insomma robot, che progettati dalla mente umana non possono che riprodurre lo stesso modello umano ma solo in una forma ripetitiva e niente affatto propositiva.
Qualcuno più intraprendente va alla ricerca quasi alchemica del potere decisionale che un automa potrebbe raggiungere, immaginando possibili collegamenti neurali tra le sue componenti alla stregua dell’attività cerebrale umana, non rendendosi conto, suo malgrado, di rincorrere lo stesso sogno degli antichi alchimisti nella ricerca della Grande Opera, cioè la trasmutazione della materia vile in oro. La sola ed indiscutibile verità è il vantaggio ed il profitto che tali ricerche apportano per alcuni operatori finanziari in campo economico ed ancora di più se applicato alla politica delle grandi multinazionali siano esse all’ombra della bandiera a stelle e strisce che a quella rossa a cinque stelle.
Molto più caustica sarebbe in proposito la famosa affermazione di Wittgenstein: se un leone sapesse parlare, noi non riusciremmo a capirlo, che ben evidenzia l’inferiorità umana nel voler progettare l’uomo del futuro, ma che non è riuscito ancora a comprendere il conosci te stesso scritto a lettere cubitali all’entrata del tempio di Apollo a Delfi!