Il “Tempus Tremendum” a Pignola
Ormai è un dato di fatto che il notevole incremento della diffusione dei festeggiamenti per la notte di Halloween (31 ottobre) ha da tempo travalicato gli originari confini geografici anglosassoni. È anche vero, comunque, che il notevole “battage” pubblicitario che la sostiene induce a far prevalere l’aspetto consumistico su quello culturale. Con queste premesse, malgrado la ferma condanna di una parte delle autorità religiose, anche in Italia la ricorrenza è entrata a far parte delle “nuove feste” del mondo giovanile.
Nonostante il suo effetto dilagante tenda a monopolizzare i riti del periodo, a Pignola (PZ) ancora sopravvive una particolare tradizione legata al culto dei morti che trova nel “Tempus Tremendum” [1] degli antichi romani un evidente riferimento.
Come al tempo dei latini, infatti, da queste parti permane la tradizione di ritenere che nella notte tra l’1 e il 2 novembre, quando il diaframma che protegge la porta che ci divide dall’oltretomba diventa più rarefatto, le anime dei morti tornino nel mondo dei vivi per trascorrere un certo periodo di tempo con i propri cari.
In particolare, a Pignola si racconta che proprio nella notte tra i Santi e i Morti le anime dei defunti lasciano il luogo di sepoltura in una ordinata processione, aperta dalle anime dei fanciulli e a seguire quelle degli altri defunti, raggruppati per peccati commessi.
Per agevolare il cammino della processione, una lunga fila di candele esposte sul davanzale delle finestre illumina il percorso. Secondo la credenza popolare, dal davanzale i vivi possono assistere alla processione, utilizzando alcuni opportuni accorgimenti e rimanendo nell’assoluto silenzio. Secondo la tradizione, ai vivi la processione si materializza riflessa nell’acqua di una bacinella, illuminata unicamente dal bagliore della candela.
Per assistere alla processione, comunque, bisogna mantenere un pieno controllo delle proprie emozioni, poiché, qualora tra quelle anime si scorgessero i lineamenti di un proprio congiunto, non si deve cedere alla tentazione di chiamarlo, in quando manifestando la propria presenza si rischia di passare dal mondo dei vivi a quello dei morti. [2]
Il percorso di quella che da queste parti è comunemente detta “la processione dei morti” ripercorre il tragitto della festa della nostra protettrice (elemento altamente simbolico) per giungere a mezzanotte in una chiesa e celebrare la messa a loro dedicata.
A quell’ora le strade devono essere sgombre poiché chiunque incappi nella “Processione dei morti”, rischia di esserne “aggregato” o quantomeno riceverne uno spavento con gravi rischi per la salute. In un racconto della mia infanzia, quando i racconti li facevano i nonni vicino al focolare, si coglie l’aspetto popolare della tradizione. Mi raccontavano, infatti, di una certa Maria Felicia che aveva in custodia le chiavi e per questo si sentiva in dovere di intervenire…
“…Nonostante l’ora, avvolta in un lungo scialle scuro, Maria Felicia si avviò a passo lesto giù per la stradina rischiarata dalla luna. In fondo, dalla porta della chiesetta nel pianoro, una luce seppur tenue e tremolante spandeva intorno un tenue chiarore. Probabilmente, pensò la donna, il vento aveva spinto e il vecchio portone si doveva essere aperto, magari qualche animale si era anche indegnamente intrufolato. Lei, comunque, aveva le chiavi ed era suo dovere controllare. Sebbene a malavoglia, la donna abbandonò il tepore della sua casa e avvolto in uno scialle nero affrontò le rigide temperature della notte. Arrivata a pochi passi dalla chiesa, dal portone appena accostato gli arrivò il sussurro di una litania. Pensò si trattasse della celebrazione di una funzione serale della quale il prete non l’aveva avvisata. Spinse il portone ed entrò nella sala piena. Cercò un posto vuoto tra i banchi e si avvicinò ad una comare. Accortasi della sua presenza la comare la rimproverò:
- Questa non è la messa vostra, devi andare via!
Solo in quel momento la donna, guardandosi bene intorno, realizzò di trovarsi tra le anime dei morti e prontamente guadagnò l’uscita.
Per lo spavento si ammalò di una febbre violenta e rimase per un lungo periodo tra la vita e la morte.
Un racconto certo singolare e misterioso che, aldilà dell’aspetto suggestivo, aggiunge un tassello importante per riguadagnare i contorni sbiaditi della secolare tradizione.
Comunque, secondo la tradizione, alla fine della celebrazione della messa[3] le anime dei defunti raggiungono le case dei propri cari.
La candela accesa sul davanzale, in questo caso, assume una duplice funzione, ossia facilitare l’individuazione dell’abitazione e mostrare il gradimento all’accoglimento del caro defunto. In queste case, le anime ritroveranno gli affetti e un angolo dove rifocillarsi: un bicchiere d’acqua, del vino, frutta secca e taralli particolari, magari quelli che qui chiamano le “ossa dei morti”.
Comincia così una permanenza silenziosa e benevole, che per certi versi richiama il costume degli antichi “penati”.[4] Una presenza impalpabile, ma che in certe occasioni si manifesta con la percezione di un caldo abbraccio consolatorio. Solo in alcuni casi, invece, si verificano i “pizzichi dei morti”, ossia l’apparizione di leggere ecchimosi non dolenti.
Secondo la tradizione, la permanenza tra i vivi dura fino al giorno dell’Epifania, quando le anime fanno ritorno nell’oltretomba.
Un nuovo distacco, dunque, vissuto con amarezza se non con dolore, sentimento ben sintetizzato dalla tradizione pignolese nel detto popolare:
“Tuttë i festë gessërë e vënessërë, ma Pasqua Epifania mai arruassë”, ossia, “Tutte le feste andassero e venissero, ma Pasqua Epifania mai arrivasse”.
Anche per le anime il distacco avviene non senza sofferenza e grati dell’accoglienza non ripartono senza lasciare un segno tangibile del loro affetto. Nell’antica tradizione esse lasciavano regali per i bambini, ma questa è un’altra storia, di befana e Coca Cola. Forse ne parleremo… forse, ma in un’altra occasione… magari.
[1] Per i romani il “Tempus tremendum”, rappresentava il periodo di morte della natura destinata ciclicamente alla rinascita.
[2] La cautela trova riscontro anche nelle relazioni di importanti studiosi di antropologia e tradizioni popolari come Pitrè e Frazer che ne registrarono il rito presso comunità che ne hanno smarrito la memoria. Per quanto riguarda Pignola, l’informatrice Maria Laino, nata a Pignola nel 1922, raccontava che a sua memoria durante il rito una donna riconobbe i tratti del figlio, non riuscì a contenersi e lo chiamò. La magica visione si dissolse e la donna morì qualche mese dopo.
[3] Evidentemente un elemento esorcizzante.
[4] Per gli antichi romani, i penati rappresentavano le anime degli antenati protettori della famiglia.