Salvare le librerie italiane si può, ma occorre puntare sulla qualità

Leggeremo ancora un libro? Cosa ci spingerà ancora dentro una libreria? Saranno nuovamente credibili le citazioni forti, edificanti e belle, sul valore dei libri e della lettura? A queste domande, fino a qualche tempo fa, avremmo risposto con un «no»: abbiamo visto librerie chiudere; abbiamo visto il Kindle trionfante (niente contro gli e-reader, ma sono sembrati appartenere alla stessa slavina che trascina tutto con sé: libri, librerie e lettori); abbiamo visto le immagini vincere sulla parola scritta.

Adesso vediamo però che la più grande catena di librerie americane, Barnes & Noble, dopo anni di crisi, di inedia e di morte annunciata, non solo è viva, ma apre 18 nuove librerie. Cosa sta succedendo? B&N le aveva tentate tutte: prima creando il Nook (per contrastare il Kindle) ma il fallimento è stato immediato; poi ha provato con il prezzo (compri 2 prendi 3, ecc.) peggio ancora; poi ha iniziato a vendere giocattoli, gadget, poster, ma niente è cambiato; poi ha provato con il bar: prendete un caffè in libreria!

per un buon caffè: insomma, un doloroso, estenuante, infinito finire. Come nei film d’azione, quando niente sembra poter salvare l’inseguito, e arriva la salvezza all’ultimo istante, così anche nel caso di B&N c’è una salvezza, e assume il volto di James Daunt, un tipo che a Londra ha portato al successo una libreria. Cos’ha fatto per salvare B&N? Semplice, ha puntato tutto sulla qualità dei libri. Se vendi libri, l’unica cosa che vale è avere buoni libri.

Elementare, ma non tanto, perché la prima cosa che ha fatto è di non accettare le proposte dei grandi editori che, di fatto, «acquistano» i banconi e le vetrine della libreria. Succede lo stesso anche da noi. Quegli accordi sono un paradosso: il libraio riceve soldi senza vendere i libri (perché ha già venduto lo spazio), i grandi editori controllano le vetrine per metterci i loro (auspicati) «best seller», magari del personaggio televisivo del momento. Tutti felici, dunque. L’unico infelice è il lettore che non trova più buoni libri e buone ragioni per andare in libreria, ma solo copertine che durano lo spazio di un mattino.

Entrare in libreria dovrebbe essere un’esperienza intellettuale, ma dov’è l’esperienza intellettuale se i libri sono selezionati non per il loro valore, ma per il potere della casa editrice che li pubblica? Se gli autori non hanno pari condizioni di farsi conoscere? Se ogni libreria è uguale? Si entra in libreria perché si è attratti dalla possibilità che i libri possano cambiare la nostra vita, ci diano nuove idee, e per creare piccole comunità. Ecco, diventare comunità è il segreto di alcune librerie indipendenti di Roma.

Sono librai che parlano con i clienti, capiscono i libri, sanno consigliare e creano nelle persone quella seduzione della cultura, senza la quale nessun libro sarà mai venduto: ELI, in viale Somalia, ha corsi di scrittura e una galleria d’arte; Il Segnalibro, in via Oslavia, vende libri usati, ciascuno con una storia in quanto oggetto fisico e non (solo) per il suo contenuto; Tomo, in via degli Etruschi, punta sulla vita culturale del quartiere e sulla distinzione femminile. La libreria dei Granai presenta libri e autori dove meno te l’aspetti.

E ce ne sono altre, ognuna cerca la sua strada con fantasia, senza la forza bruta delle promozioni, attraverso il dialogo con i lettori: fiammelle che danno ancora senso alle librerie e, in fondo, al sapere stesso. È soprattutto grazie a loro che leggeremo ancora un libro, magari insolito, inatteso, sconosciuto che ci affascina e ci fa dire grazie a chi l’ha scritto e a chi ce l’ha proposto.

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