Sulla storica parata dei turchi che si tiene a Potenza in Basilicata si sono consumati fiumi d’inchiostro e ingenti somme di denaro per descriverla. Si sono prodotti libri, opuscoli, volantini, tavole rotonde e quadrate ma purtroppo ancora non si è giunti alla soluzione di una “verità storica”. Ecco perché Radionoff-Rivista ha deciso di partecipare all’annuale giostra dei narratori della “Sfilata dei Turchi”, pubblicando alcuni stralci di studi e pubblicazioni del passato affinché i nostri lettori-internauti possano farsi un’idea propria.
In ASP, Atti notarili, Potenza I, Notaio Giovanni Antonio Scafarella (1578-1580), Verbale Università di Potenza 1578.
(p. 48) “Die 8 mensis iunii 1578. In aula Sedilis Civiatis Pot.e congregati et cohadunati in unum pro bono regme sequenti: Il m.co Fran.co centimani U.J.D. e M. Giurato in questo anno, nob Angelo di Alessanto Sin.co et li m.ci eletti cioè l’egreggio notare Giovanni Antonio Scafarella, Dom.co Spera U.J.D. Federico Giordano, Fran.co Jasone, Pietro Antonio Zappa, Valerio di Pittera, Gerardo Tarallo, Daniele Coppola e pascariello noie, eletti deputati al governo di detta città. ln questo presente Anno, in presencia deli q.li per esso m.co mo0 Giurato, è stato proposto del medesimo infrascritti, le S.V. hanno letto e inteso Pos.ne venuto dalla Ill.ma S.ra Contessa circa la lntrata dell’lll.mo s.or Conte, e che modo si ha da tenere in detta feliciss.a lntrata, il che si sia da mettere in esequitine con maturo consiglio dalle SV per quanto pofranno disponere quello li occorrerà circa l’ordine del portare delle mazze del palio, acciò che non ci intervenga discordia nesciuna circa lo anteriore, e posteriore della man destra, e sinistra nel portare di quello, sì ancora delli gentil homini quali havranno da andare per palafemieri alla staffa, di esso or Ill.mo che il tutto da me sarà eseguito conforme al savio cons.o delle S.V. così in questo capo come in tutti li altri scritti et venuti da detta Sig.ra Ill.ma.
Capo della Cavalleria. Et fuit conclusum per predittos pari votu cbe quel gentil huomo quale ha da condurre la cavalleria della Città e ricevere lo S.r Conte Ill.mo et andarlo a Incontrare habia da essere il m.co paulo D’Amatis, ò vero lo m.co Agostino Cassia, ò lo m.co Cesare Missanello e si per caso nesciuno dclli predetti volessero accettare tal peso, si voglia parlare con lo m.co Oratio Teleo che lui sia capo della Cavalleria, e che vada ad incontrare detto s.re Ill.mo, e quando tutti mancassero, si dia tal peso all’Egreggio Not.re Gio Batta Caporella et ita fuit conclusum. Palafemieri. In quanto alli palafemieri quali havranno da andare al morso et alla staffa di detto sr Conte Ill.mo secondo lo notamento mandato dalla s.ra Contessa Ill.ma già letto, fuit conclusum per predittos et eletti a tale officio li m.ci Paulo d’amatis, Francesco centomani m0 Giurato, Agostino Cassia, Cesare Missanello, Ferrante Stella, U.J.D. Oratio Teleo U.J.D. Annibale Janora, Ascanio Clappis, ferrante di blasi A.M.D. et ita fuit conclusum.
Che li detti portino lo pallio. Et fuit conclusum etiam per predittos che sieno diece eletti quali havranno da portare le mazze del palio in questa felicissima Intrata dell’Ill.mo S.r Conte e che non sieno tutti dudeci eletti poi che doi ci ne mancano al detto complimento con declaratione che non ci sia differencia ò duello di chi andrà alla mano destra, ò alla sinistra, ma che s’intendano tutti eguali, et senza ecceptione alcuna, e che l’habiano da portare dette mazze i seguenti: M.co dom.co Spera con Not.re Gio Ant. Scafarella federico Giordano con m.co Fran.co Jasone Pascanello Nole con m. Angelo Caruso Pietro Ant. Zappa con m. Gerardo Tarallo Daniele Coppola con m. Gio. Andrea Giordano. Fuit conclusum che lo palio nuovo già venuto da Napoli che ha fatto fare la città in questa felicissima lntrata dell’Ill.mo Conte sia et resta impotere della città ad nova liberatione di essa lntrata et non aliter nec alio modo”.
Facendo onore alla tradizione lucana d’una ospitalità calda e umana, gli eletti dispongono anche un gesto offertoriale, per così dire, per dare concretamente un segno di calorosa accoglienza.
A pagina 52, alla data del 21 giugno 1578 del manoscritto, si legge: “Presente dato dalla I Città all’lll.mo I S.r Conte”.
“ln aula Sedilis (…) per li quali m.ci M.ro Giurato Sin.co et eletti fuit conclusum (nemine discrepante) che alla lntrata felicissima dell’Ill.mo S.r Conte, si voglia comparere per la città, si per mostrare amorevolezza a un tanto grato Sig.re come ancora per obligo dela città con uno duono meritevole, per essernosi tanti Ill.mi Cavaglieri quali sono venuti con detto s.re Conte Ill.mo che si compaira dicemo con unpresente di Gente, di Zitelle, Grastati, Galline, caproni, capretti, Casicavalli, Prosutti (…) Intorci, e candelotti di cera, Panetti d (…) cannella, Pepe, Riso, e Porchette, segala (…) p.tti nominati fuit conclusum che si donino (…) fatta l’lntrata di detto s.re Ill.mo et ita fuit (…). Che lo Pallio di teletta d’oro fatta per la città non se ne faccia exito a nesciuno ma sempre stia ad eletione della Città”.
Nei giorni successivi l’assemblea degli eletti mette a punto il programma dei festeggiamenti. A cose fatte il cancelliere descrive minuziosamente e con soddisfazione lo svolgimento del solenne ingresso, non senza soffermarsi con una punta d’orgoglio cittadino sulla rivendicazione del pallio che deve rimanere, nonostante le pretese del feudatario, “ad elelione et impotere della cillà”.
Lo svolgersi dei festeggiamenti presenta molti punti di contatto con la ottocentesca sfilata descritta da Raffaele Riviello.
La descrizione, da pagina 53 a pagina 56, continua così; “Entrata dell’lll.mo I Conte moderno don I Alf.di Guevara”. “Alli 24 di Giugno 1578 e proprio il giorno di Santo Giovanni Batt.a per la felicissima Intrata dell’lll.mo Sig. Don Alfonso de Ghevara Conte moderno della città di Potenza, dove fu accompagnato da molti cavaglieri e persone titulate e gli uscì incontri la Cavallaria della Città la quale l’ha guidò il M.co Oratio teleo medico, e in nome della Città lo receva fuori della Città da circa tre miglia, la fantaria poi l’usci incontro più llà di S.ta Maria di Bethelaem con una vistosa salva, dove per la Cavallaria si gli diede più assalti, e la Fantaria posta In trincera si fè una bellissima scaramuzza molto vistosa più qua di detta Ecclesia il che fatto, prima andava la compagiia turchesca, e moresca vestiti, quali nello taglio nuovo verso il Vaglio dove erano fatti fre Castielli. ln quello sito, l’uno distante da l’altro, a quali se gli diede batteria (…) dentro lo taglio sopra una Barca, furono presi e brugiati, cosa molto vistosa, et degna. Così seguendo per or.ne sè nè vennero vicino alla città e proprio al Monte, dove si ritrovò una Compagnia di figliuoli guidati da huomini con tamburi, et insegna posti per ordine tutti vestiti di bianco con corone di Edere, con motti scritti quali portavano In petto che dicevano alcuni “Semper viridis”, alfri dicevano “Semper Eadem”, et altri “Semper vivas”. Gli quali figliuoli alta voce gridavano viva viva Ghevara e cosi ad ogni passo facevano questi debiti applausi, e così poi li predetti figliuoli andavano Innanzi con rami in mano verde, la Compagnia Turchesca segueva appresso e d.i po’ la fantaria e così s’intrò nella città a presso la fantaria veneva l’Ill.mo S.r Conte e per uno poco di spatio dalla porta della città si fe’ ritrovare lo m.co Fran.co Centomani U.J.D. e M .ro Giurato della Città accompagnato da molti huomini da bene, e vecchi, quali riceverno con li eletti ln nome della Città detto S.re Ill.mo; e venuto quasi vicino la porta salza dove si trovò l’Arcidiacono con lo Capitolo, e Clero della Città quali portavano la Croce, per li quali fè ogni debita cirimònia che si usa nelle Intrate delli Signori cantandono laudj con una dolcissima msica e dopo l’lllmo S.r Conte sopra lo ponte di detta porta il quale fu fatto per la città tutto di taffità di varii e diversi colori dopo disceso, se inginocchiò sopra uno coscino di velluto, e fatto li debiti cerimonj per li preti basò la Croce, e prima che fusse Intrato nella città a cavallo per lo M.có Giurato se gli presentò la Chiave (fatte tutte d’argento) della Città con richiesta che Sua Signoria Ill.ma ne faccia grazia di passare tutti li Capitoli, Franchicie et Immunità della Città, e cosi posto a Cavallo per li m.ci eletti fu spiegato lo Palio di teletta d’oro sotto il quale fu condotto detto S.r Ill.mo per la Città fin alla Cattedale Ecc.a di Santo Gerardo accompagnato nel morso et alla staffa da gentil huomini già scritti in f. 48, dove dentro la Ecc.sia simil.te si fè per gli predetti preiti li debiti cenmonj con cantare lo TeDeum laudamu, con tante musiche si dentro la Ecc.a come per dentro la Città, con essemosi sparati più e più pezzi di Artegliaria per la Città con molta festa et allegezza di tutto il Popolo e cosi fu condotto detto Ill.mo nel suo Pallazzo accompagnato similmente dalli già detti per la Città e la cavallaria seguì sempre dietro di tutti. Et essendono venuti al palazzo, similmente sotto il Palio quali portavano li eletti. Intromo dentro lo Castiglio et Intrati subito l’Auditore di detto S.re Ill.mo ad alta voce a cavallo disse alli eletti che alla pena di mille ducati dovessero lasciare lo Palio”.
Ottimi spunti di riflessione si ottengono con gli stralci tratti da “Cronache potentine dell’800 fatti e figure” di Vincenzo Perretti, edito dalle Edizioni Laurita – 2000.
Sull’argomento “Sfilata dei Turchi” recentemente si è tentato ancora una volta di riaprire il discorso, alla ricerca di una spiegazione ragionata e confortata da riscontri storici, e si è disquisito, anche con impegno, su fatti forse mai accaduti e su ipotetiche datazioni: il prof. Luigi Serra, gli studiosi Giulio Stolfi, Carlo Rutigliano, Gerardo Corrado e lo scrittore Lucio Tufano sono tra i tanti intervenuti nei dibattiti. Purtroppo non è emersa alcuna notizia di fondato rilievo storico. D’altro canto, proprio la mancanza di certezze, consente al comitato dei cittadini, organizzatori della festa, la libertà di perpetuare quei motivi di costumi e di arredo scenografico che sono sicuramente dettati dalla tradizionale fantasia popolare. Periodicamente, e quindi anche in questi ultimi anni, si sono rinnovati il dissenso e la critica per le scelte operate dai responsabili circa le modalità realizzative della manifestazione: polemiche sterili e incapaci di coinvolgere concretamente sia quella gente che nel secolo scorso mostrava per la festa ancora slancio di gaudio e di fede – come scriveva Riviello – sia la politica e l’economia, ovvero la gente che conta. Tra gli amministratori comunali e i cittadini si sono ripetute, di anno in anno, accuse reciproche di incapacità e disinteresse ed il tutto è finito sempre in una ricerca affannosa, protratta fino all’ultimo momento, dei fondi necessari per allestire un prodotto perlomeno dignitoso; le autorità religiose praticamente erano già state estromesse da questi temi, avendo la chiesa, come si è visto, avversato da tempo questa commistione tra rito sacro e ricorrenza profana.
Si può argomentare quanto si vuole, ma alle soglie del terzo millennio abbiamo il dovere di ragionare e di rapportarci alla realtà in cui viviamo, non per aggregarci al coro delle recriminazioni, ma per ricercare tutti insieme una soluzione moderna che serva a preservare una antica credenza che nessuno vuole far scomparire; e non si intenda con questo il suggerimento a creare semplicemente una sceneggiata di sicuro gusto popolare, perché con gli attuali mezzi tecnici, con il richiamo di personaggi alla moda ed opportuni finanziamenti, non sarebbe difficile raggiungere lo scopo. Si tratta, invece, di capire e di soddisfare – nei limiti del possibile – le volontà e le esigenze di tutte le parti sociali interessate, soprattutto quelle dei fedeli, considerando anche le difficoltà di aggregazione tra la società del centro urbano e quella della periferia. Se è vero che la cittadinanza è legata ancora a questo tipo di festa ed è disposta a parteciparvi, basterà riproporre semplicemente le esperienze ben note che si basano inequivocabilmente sulle credenze autenticamente popolari. Detto questo, si può concludere che forse la soluzione più corretta sta nel rispetto della tradizione, col bandire tutti gli artifizi incoerenti, come gli sbandieratori di scuola umbro-toscana o quei fini dicitori di piazza che taluni uomini di cultura – improvvidamente chiamati a decider – hanno imposto in alcune edizioni degli anni scorsi. Occorrerà impegnarsi ad utilizzare al meglio i mezzi finanziari devoluti dalle varie amministrazioni ed enti, ma soprattutto quelli raccolti dal comitato di cittadini con l’antico sistema della questua: uno sforzo minimo, indispensabile per realizzare questa sagra nostrana che, tra l’altro, è l’unica rimasta in vita.
L’evoluzione dei tempi forse non consentirà che i partecipanti alla sfilata siano contadini autentici, né che i costumi popolari siano quelli giusti, ma non ci sembra di intravedere scelta più idonea. Del resto, gli enigmi e le perplessità su questa tradizionale sagra ci sono sempre stati ed hanno sempre generato dubbi e contrasti; oltre un secolo fa Riviello temeva addirittura che la festa potesse scomparire, quando scrisse: “che sia questo indizio che San Gerardo segua la sorte dell’antico protettore Sant’Oronzio?”. [Arontius-Aronzio, col tempo menzionato impropriamente come Oronzo e che l’antico Inno liturgico della chiesa potentina Splendor diéi rutilat… celebra negli “Officia propria” il giorno 1° settembre insieme agli altri undici fratelli santi martiri, figli di Bonifacio e Tecla, nativi di Adrumento in Africa, è quel diacono che gli stessi Officia riferiscono che fu martirizzato sotto il giudice Valeriano a Potenza nel 6° giorno delle Calende di settembre, cioè il 27 agosto del 288 circa, insieme ad Onorato, Fortunato e Sabiniano, mentre gli altri fratelli furono uccisi in altri luoghi. Vuole la tradizione potentina che il martirio di Aronzio sia avvenuto sulla riva destra del fiume Basento vicino al Ponte di Sancto Aroncio (oggi detto San Vito), nella località anticamente detta il Canneto di Sant’Aronzio, ove era posta la chiesetta omonima che si ritrova ancora nel XVI secolo. Alcuni studiosi sostengono, invece, si tratti di santi martiri africani portati in Italia poco dopo la loro morte].
Di particolare interesse è quanto riportato da Raffaele Riviello nel suo libro: “Costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino”. Potenza, tipografice editrice Garramone e Marchesiello, 1893.
[…] Qui e là si stava ammuinare (affaccendati) a vestire i Turchi, che poi si ragunavano innanzi la Chiesa di S. Gerardo (Duomo) per fare il giro, con la Nave o col Carro, intorno la città. La sfilata dei Turchi era, ed è la parte più originale, brillante e fantastica della festa popolare; quantunque abbia subito parecchie ritoccature di novità e di progresso. Ogni turco cercava, a modo suo, d’imitare nella foggia e negli ornamenti il tipo tradizionale, e credeva di raggiungere l’intento, mettendosi addosso quanto avesse avuto di meglio ia vesti, oro, nocche e fettucce; e calvaccando per lo più un mulo, parato di gualdrappa, fiocchi e campanelli. Quindi gonne bianche, mutande per calzoni, fascittelle rosse, ciarpe colorate ai fianchi, turbanti o cimieri di cartone dorato con svolazzi di piume e gala di nastri pendenti, nocche sulle braccia, grossi orecchini alla turca, sul petto una mezza bacheca di orefice, cioè: collane, stelle, spingole, (spille) ed altri oggetti d’oro. Un tipo di turco alquanto strano per goffaggine e gingilli! Erano contadini robusti, di faccia abbronzata, che facevano questa figura, stando a cavallo , come impalati, con le gambe tese, una mano all’anca e nell’ altra lo spadone diritto. Non movevano ciglio o labbro, quantunque nel passaggio la gente solese bersagliarli con frizzi pungenti e con clamorose risate. Da qui trasse origine il motto; mi pare nu turc’ per indicare chi va a cavallo, a testa alta e teso, o sta burbero in conversazione senza dir parola. Oggi sono ragazzini graziosi che si vestono da turchi, e le mamme nulla trascurano per farli parere più belli, li accompagnano vigili e premurose, e ne godono, quando la gente ne ammira l’acconciatura e la bellezza. Quante carezze, affinchè portino la sciabla diritta e non facciano la cascaggine! Anche la nave non è più la barca, o tartana a vela latina; ma si è mutata in bastimento col fumaiuolo a vapore, e con boccaporti e cannoni a pittura, facendo i bracciali da marinai, e ripetendo ad ogni strambotto il capo Paranza in aria di buffone: Allereament’, allereament’… Mo s’abbia (s’avvia) lu bastiment’… La sfilata è divenuta più ricca di valletti e di scudieri, ciascuno dei quali, fumando il suo sigaro alla smargiassa, porta in una mano la torcia a vent’, e con l’altra agita li sonaiglire del mulo per trarre dal maggior frastuono una più spiccata nota di festa e di allegrezza. Il Gran turco, con la barba di stoppa e la grossa e lunga pipa, lisciandosi con maestà i baffi, si lascia tirare in carrozzella, seguito da una coppia di alabardieri a cavallo, i quali con la faccia tinta di nero fanno sventolare la bandiera tricolore. Il Carro con l’imagine di S. Gerardo, fatto a trasparenza e illuminato da lampioncini di carta a varii colori, con ragazzi vestiti da angioli ed agitanti i turiboli, veniva e vien portato a spalla da contadini, che divotamente cioncano ad ogni fermata. Senza la nave, i turchi e il carro non si può immaginare la festa di S. Gerardo. Sarebbe toglierle il carattere di originalità e di brio popolare. È una usanza tradizionale e festosa, che non ha punto di confronto con altra qualsiasi della Provincia e di fuori. Quando e perché ebbe origine, non vi ò documento che l’accenni. Soltanto è certo, che i nostri maggiori, i quali ce la trasmisero con tanta tenacità ed amore di patria e di fede, non erano così sciocchi da simboleggiare una nave su montagna, quando nel Basento non si va in barchetta neppure nelle piene più grosse. Qualche cosa di storico vollero significare, mettendo insieme la Nave, i Turchi e S. Gerardo; giacché simboli e tradizioni popolari, secondo la dottrina del Vico, rivelano sempre fatto o ricordo di storia antica. Interpretando il nesso di nomi e di caratteri tanto opposti e disparati tra loro, penso che la nostra costumanza rammenti un episodio di fede e di valore cittadino contro invasione e scorreria di Turchi, o di Saraceni, che approdati ai lidi dell’Ionio, si spinsero poi, conquistatori o predoni, sino nelle nostre montuose contrade, donde furono cacciati con quel coraggio che in gravi pericoli patria e fede sogliono dare. Se la mia opinione non persuade il lettore, cerchi egli se mai vi sia allusione o rapporto tra la predetta usanza e queste notizie che gli trascrivo, traendole dalle «Memorie della Città di Potenza» di Emmanuele Viggiano. «… Queste sue galee (parla di Ruggiero Normanno) trassero «allora dalle mani de’ Saraceni, o come altri dice de’ Greci Lodovico Re di Francia, tornando dalla infelice spedizione di Terra Santa; ed egli stesso gli si fece incontro in Basilicata, e lo ricevette in Potenza nel 1148, secondo il Collenuccio; rapportando il fatto un anno dopo l’anonimo Cassinese seguito dal Muratori negli Annali: Ludovicus Rex a partibus Hierosolymitanis reversus, a Rege Rogerio apud Potentiam susceptus. Anche la seguente notizia, per le circostanze di tempo e di luogo, potrebbe spiegare la storica origine della Nave e dei Turchi. Sappiamo solamente che nel 1013, il Conte di Conza insieme con Vamfredo di Potenza combattè i Saraceni in Vitiliano, dei quali molti ne uccise; ma nell’Obtobre 1014, furono da quelli ambedue battuti e presi. Carlo suo quarto figliuolo (parla dei Conti Guevara di Potenza) agli altri sopravissuto ereditò molto Feudi, e fu anch’egli gra Siniscalco. Valente uomo nelle armi, come il Genitore, nell’impresa Africana di Algeri comparve con tanta pompa, che la sua tenda accolse lo stesso Imperador Carlo….». Non può ricordare, come qualcuno disse pellegrinaggio di S. Gerardo in Terra Santa , perchè l’Ufficio del santo di ciò tace; e il Viggiano scrisse : . . . . Egli è questi Gerardo, che ebbe suo nascimento in Piacenza; donde partito nell’età sua matura, scorse mosso da spirito di divozione, la maggior parle d’Italia. Giunto in Potenza, come se voler fosse di Dio, che là rimanesse, fermossi… Ma basta … Se la Nave e i Turchi, a prima impressione, sembrano una mascherata a forestieri ed ignoranti, il loro riso per certo non ci offende. Spetta a noi invece serbarla intatta, e ridestare lo spirito di patria con lo studio delle memorie e dei fasti cittadini, trovandovi sempre propositi d’indipendenza, virtù di popolo, e schietta fede. Passati i Turchi, la gente si riversava nella Piazza per vedere li fuochi d’artifici (fuochi d’artificio), preparati e posti alla meglio in quello stretto spazio, fin giù al Muraglione, ove alzavasi lu castiedd’ (castello), il grosso del fuoco; in guisa che ai lati si lasciava appena una striscia di luogo per la folla. E si dovevano sparare alla Chiazza, anche quando fu fatto il bel Largo dell’intendenza, o Mercato, oggi Piazza della Prefettura. Mi ricordo che nel 1848 si pensò di spararli nel Mercato, più adatto e spazioso, e già si erano messe le travi pel castello; ma i contadini, sobillati dalla gente della Chiazza, si levarono a tumulto, nè si quietarono, se non quando, tolte le travi di là, se le portarono giubilanti a mettere in Piazza del Sedile. Fanatismo di tempi, giovevole a mire di polizia e di birboni! Prima a spararsi era la Rutedda bulugnese (rotella, girandola bolognese), famosa per le molto girelle concentriche, di crescente misura e per i suoi varii colori. Si poneva all’angolo della casa Riviezzo, affinchè si fosse potuta vedere dalla Piazza e da ambo i lati di Via Pretoria. Indi si dava fuoco, successivamente ed a rilento, alle altre sezioni con pupe, o fantocci pirotecnici, fuochi di bengala, furii, fontane a pioggia d’oro e di stelle di molti colori; E di tratto in tratto si alzavano carcasse (razzi) e palloni di varia grandezza e figura per prolungare il festoso passatempo, mentre le bande si sfiatavano a viconda in allegre sonate. Appena sparata una sezione, e si faceva un pò di luogo, subito era occupato dalla folla, che a via di gomitate e di spintoni prendeva posto. Quando si dava fuoco al castello, allora era il vero diavolio di furii pacc’ (pazzi), di batterie, di bombe e di carcasse, che ti assalivano e ti stordivano da ogni verso, passandosi il pericolo di perdere un occhio, o di avere bruciato il vestito, senza potersi scostare di un passo. Chi aveva un posticino su qualche balcone o finestra della Piazza, o in una di quelle botteghe, poteva dirsi fortunato in quelle sere. Come faceva gola una sedia, un cantuccio. Era davero il caso di vaIutare le espresioni popolari: Tutt’ vurrienn’ la casa a la Chiazz! Ma non tutt’ ponn’avè la casa a la Chiazza! (Tutti vorrebbero la casa alla Piazza! Ma non tutti possono avere la casa alla Piazza!). Così aveva termine lo spettacolo festoso della vigilia, ritirandosi la folla e le stanche bande per prepararsi alla vera festa ed alla processione del dimane […].
Qualche altra narrazione sulla storica Parata dei Turchi ci è offerta anche nel 2018 dove sono state elaborate tesi scenografiche e percorsi storici di nuova ipotesi e in parte realizzati nel 1957 da un piccolo oposculo di quattro paginette prodotto dal Comune di Potenza. Non mancano, comunque tanti altri contributi di tanti altri esperti. Altro lodevole contributo ci è stato offerto da Rocco Triani con Storia di Potenza, di Arti Grafiche – 1986.
[…] Potenza, su: “Potenza nelle sue vicende storiche”, ci parla di altro avvenimento storico che a suo parere è la vera e semplice origine della sfilata dei Turchi, e così dice: «L’origine della sagra dei Turchi è molto più semplice» (facendo riferimento a quanto detto sull’argomento da altri storici). «In una vecchia cronaca redatta dal cancelliere della Università di Potenza nel 1578 – e che per caso rinvenni in un registro dell’Università disperse tra alcuni protocolli notarili – viene descritto l’arrivo a Potenza del giovane conte Alfonso de Guevara. Per rendere omaggio al signore, Potenza – che sollecita la concessione degli statuti cittadini – predispone grandi feste. Tra l’altro, si organizza con la partecipazione di tutta la città una grande parata nella valle del Basento: due eserciti sono schierati in battaglia, quello spagnolo e quello turco. Guidò la cavalleria – si legge nella vecchia cronaca – il magnifico Oratio Teleo…» etc. etc., e dopo aver descritto le fasi della battaglia vinta dagli spagnoli aggiunge: «Li Turchi e li moreschi incatenati furono posti addietro alla barca e seguendo per ordine prima la cavalleria poi la fanteria e poi la barca con sopra lo magnifico Oratio se ne vennero vicini alla città e propriamente al Monte dove si rattrovò una compagnia di figlioletti con suonatori e tamburi e l’arcangelo tutti vestiti di bianco. E dal Monte – continua il cronista – andavano avanti e così s’entrò nella città. Gli angeli, i cavalieri cristiani, la barca, i turchi… Sono elementi oggi della sagra potentina». La predetta parata in onore del Conte Alfonso De Guevara avvenne il 24 giugno1578, era Mastrogiurato di Potenza il Dott. Francesco Centomani.
Nelle pubblicazioni realizzate alla fine degli anni Novanta lo storico Tommaso Pedio inizia le sue narrazioni dalla famosa battaglia di Lepanto tenutasi il 7 ottobre del 1571 dove la flotta cristiana distrusse e vinse quella turca. Racconta Pedio che lo scontro fu cruento ci furono migliaia di morti e oltre diecimila turchi furono fatti prigionieri. «[…] Tra i cristiani hanno combattuto un gruppo di quaranta valorosi volontari lucani venosini comandati da Silvio Maranta, si narra che, molti di loro, se pur gravemente feriti si battettero con un particolare valore che tutti riconobbero loro. Il loro comandante per le gravi ferite riportate morì ricevendo tutti gli onori del mondo cristiano. Grandi feste si tennero in Italia e in Spagna e in modo particolare a Roma dove, l’ammiraglio della flotta pontificia, Marcantonio Colonna, preceduto da vescovi e cardinali condusse e consegnò al pontefice Pio V i prigionieri turchi». Furono talmente alti gli entusiasmi che l’anno successivo il nuovo papa, Gregorio XIII, ordina a tutti i vescovi di ricordare la vittoria con pubbliche manifestazioni. Naturalmente per rappresentare l’evento era il popolo a organizzarsi con maschere, bardature e quant’altro potesse essere utile. Anche i vescovi della Basilicata ubbidirono con slancio all’iniziativa e in tutti i paesi si svolsero manifestazioni e in particolare a Potenza che coinvolgeva tutto il territorio. «[…] Tutta la popolazione potentina si riversava a Betlemme per assistere alla rappresentazione della battaglia tra cristiani e turchi mentre a Macchia Romana si recava un altro numeroso gruppo di popolani che rappresentavano i turchi, alcuni a cavallo e altri appiedati guidati dal Sultano con al suo fianco un soldato che portava la bandiera turca con la mezza luna. Nel frattempo dove oggi c’è il Ponte delle Sette Luci si organizzavano per la parata i nobili della città, anche essi parte a cavallo e parte appiedi. Il più autorevole potentino rappresentava il Comandante di questi nobili cittadini cristiani che sventolavano la bandiera con la croce». I Turchi vestivano “camicioni” di colore rosso o turchino mentre i cristiani un “camicione“ di colore bianco e tutti erano armati con armi di legno e comunque posticce e innocue. A un segnale convenuto le fazioni si scontravano in una battaglia ferocissima dove, ovviamente, vincevano i cristiani che facevano prigionieri i cavalieri i soldati e soprattutto il Sultano turco. «[…] Finita la battaglia si formava il corteo che veniva aperto dal Comandante cristiano seguito dai soldati e dai prigionieri turchi e chiudeva il corteo tutta la popolazione che si era recato a Betlemme per assistere alla “battaglia”». Tutto il corteo saliva in città e quando questo era in prossimità d’essa da Montereale scendevano gli angioletti. «[…] che erano rappresentati da bambini vestiti con camici di colore celeste con in testa una ghirlanda di fiori e si univano al corteo». Quando il corteo giungeva sotto le mura della città a Porta Salza la porta si alzava e «[…] ad accogliere i vincitori in corteo era il Sindaco con tutti i Notabili e il Clero della città e unitisi al corteo proseguivano, in parata, verso la Cattedrale passando lungo, quella che sarà […] via Pretoria». Ad attendere il festoso corteo, avanti alla Cattedrale c’era il vescovo con tutto il capitolo che prendeva in consegna i prigionieri poi tutti insieme entravano in chiesa per qualche preghiera e poi tutti in strada a festeggiare. La concomitanza di questo evento con la venuta a Potenza del conte Guevara padrone della città ha portato a unire gli eventi e con l’aggiunta di una nave, una jaccara e un po’ di musiche ha reso la Parata dei Turchi nella Sfilata dei Turchi, per la Festa dei Turchi.
Su tale manifestazione le notizie non finiscono qui. Alcuni studiosi sostengono che la Parata ricorda una processione religiosa tenutasi al ritorno di schiavi riscattati in Barberia dai religiosi degli ordini SS. Trinità e Mercedari e ne ripete la contestuale festa popolare.
La prova sarebbe che a Bruges nel 1884, a ricordo (documentato in “Corsaires et Redempteurs”, edito nel 1884 da Societé de Saint Augustin – Lille – Francia) del ritorno di schiavi riscattati, con il Santo protettore sfilarono i Turchi, il gran Turco, e l’equipaggio della nave che li riportò liberi in patria. Sono gli stessi protagonisti che si ritrovano nella Parata di Potenza. Musto ritrova altri indizi nell’opera dello storico potentino Riviello. Questi nella Parata riporta (Ricordi e note su costumanze, usi e costumi del popolo potentino, Potenza, tip. Garramone e Marchesiello, 1893) altri personaggi presenti nelle rituali processioni tenute al ritorno di schiavi riscattati: alabardieri (fungevano da scorta d’onore), bambini vestiti da Angeli (presenti nelle processioni dei Trinitari) e Bambini vestiti da Turchi (presenti nelle processioni dei Padri Mercedari). Anche i luoghi della festa riportati dal Riviello (inizio della festa all’esterno cattedrale e strade della Potenza medievale) sono compatibili con una processione di schiavi riscattati che terminava in cattedrale per i riti di ringraziamento.
La rappresentazione chiamata “Parata dei Turchi” si tiene ogni 29 maggio. Nell’antichità invece era celebrata l’11 maggio, ma a causa delle avversità climatiche venne posticipata alla data del 29 maggio. La vulgata cittadina fa risalire la rappresentazione allegorica del 29 maggio alla pretesa invasione di Potenza da parte di un esercito turco, il quale avrebbe risalito il fiume Basento fino al capoluogo. I cittadini, impotenti dinanzi all’organizzazione militare degli invasori, si sarebbero rivolti così al vescovo, san Gerardo La Porta, e questi, invocando una schiera di angeli guerrieri, avrebbe compiuto il miracolo di liberare la città dai suoi nemici. Appare tuttavia improbabile che, in tempi geologicamente recenti, il fiume Basento sia stato navigabile, inoltre non è storicamente riscontrata un’invasione turca riconducibile al periodo di S. Gerardo la Porta. È più credibile, invece, che Gerardo la Porta, già vescovo di Piacenza, abbia cominciato a essere venerato come santo protettore della città (il protettore precedente era S. Oronzio, martire), dopo esservi stato mandato dalla Santa Sede per contrastare la diffusione dell’eresia Catara. Difatti, è certo che i Catari, nei primi decenni del XII secolo, estendessero le ultime propaggini nel sud Italia (pur avendo le loro maggiori comunità nel nord Italia e Oltralpe).
Vi sono tracce storiche, nel dialetto potentino (definito appunto un dialetto atipico per il sud Italia, con notevoli echi “gallici”, e precisamente “Galloitalico”), che dimostrano una forte immigrazione, nel tardo Medioevo, di gruppi provenienti dal nord Italia e dalla Mitteleuropa. È plausibile che le comunità catare, le quali assumevano la forma di forti e influenti clan religiosi, abbiano incontrato l’opposizione delle gerarchie cattoliche ortodosse, e che Gerardo la Porta, vescovo di Piacenza, abbia ingaggiato con loro uno scontro politico, fino alla neutralizzarne l’influenza presso la borghesia cittadina. Da allora, probabilmente, la cittadinanza conservò con devozione la memoria del “liberatore”, attribuendo col tempo ai “Turchi”, il nemico per antonomasia delle popolazioni meridionali dei secoli successivi, il burrascoso evento e trasformandolo in una fantasiosa invasione armata.
Altre teorie fanno risalire la ricorrenza popolare ai festeggiamenti per la liberazione del re di Francia Ludovico, tenuto prigioniero dai Saraceni, festeggiamenti che sarebbero avvenuti a Potenza insieme all’autore dell’eroica liberazione, Ruggero I di Sicilia. Tale avvenimento, che avvenne poco dopo la santificazione di Gerardo la Porta, sarebbe stato ritenuto una grazia concessa da un protettore celeste, che fu naturale riconoscere nel santo appena “fatto”. Secondo altri, similmente a quest’ultima ipotesi, si tratterebbe sì di una rievocazione di festeggiamenti militari, ma l’origine sarebbe la battaglia di Vienna del 1685, contro l’esercito musulmano schierato alle porte dell’Europa.
Un’altra tesi afferma che la tradizione della Parata dei Turchi risalga al 24 giugno 1578, data in cui il conte Alfonso de’ Guevara giunse in città. Il popolo organizzò una grande festa e attese il conte vicino al fiume Basento, ai piedi della città. Vennero edificati tre castelli e venne simulata una battaglia con i turchi i quali vennero sconfitti e presi prigionieri. Quest’ultimo gesto voleva ricordare la battaglia di Lepanto del 1571. L’avvenimento viene ricordato ogni anno il 29 maggio, giorno prima delle celebrazioni religiose in onore del santo Patrono. La Parata, costituisce una rievocazione storica figurata che prende in considerazione i secoli XII, XVI e XIX, secondo quanto stabilito dai nuovi “signori” della cosa pubblica eletti nel corso degli anni dopo la caduta del regime fascista e la successiva proclamazione della Repubblica.