D’Annunzio, il naturalismo sensuale prima sfocia nel superuomo e poi nel sentimento panico della natura

Nella poesia del D’Annunzio si rispecchia la decadenza morale della fine dell’Ottocento. La ispirazione del poeta non poggia su dei contenuti interiori, su delle verità che l’anima ha conquistato, ma sui fatti esteriori. Le sue prime composizioni. Primo vere, sono una riuscita imitazione del Carducci del quale ripetono immagini ed espressioni, imitazione anche se non voluta, accettate per dare sfogo al bisogno di esprimersi in versi e per il fascino che il poeta maremmano esercita sul D’Annunzio ancora adolescente.

Ma già nella prima opera la virilità della poesia carducciana cede il posto a una sensualità della bellezza che turba ed eccita. Qualche critico ha invece trovato nel D’Annunzio delle prime opere il verismo del Verga e del Capuana, ma di questo stile, di questa letteratura, è stato riconosciuto, rimane solo il gusto per la descrizione degli aspetti più vivi della realtà, di quelli in cui si manifesta la crudezza della vita, ma la narrazione è fine a se stessa ed è privata di ogni intento morale. La vita per il D’Annunzio si manifesta solo attraverso i sensi e l’istinto ed è affermazione del proprio io, a prescindere da ogni legge e da ogni norma umana e divina .

Tutta la vita del poeta e tutte le sue manifestazioni artistiche non sono che un continuo tentativo di dare sfogo alla sua prorompente vitalità, alla sua sensibilità. E le manifestazioni del naturalismo sensuale non potevano essere sufficienti ad esternare una tale prepotente personalità. Quindi il naturalismo sensuale prima sfocia nel mito del Superuomo e poi si trasforma nel sentimento panico della natura. L’unica verità è l’istinto e il Superuomo dannunziano può dominare il mondo come meglio crede e può appagare tutti i suoi desideri smodati perché a lui tutto è permesso.

Il mito servirà al D’Annunzio per liberarsi da ogni remora morale e per giustificare ogni manifestazione della sua arte e della sua vita, per soddisfare pienamente ogni suo impulso che proviene dalla sua smodata lussuria. Ma inutilmente cercherà quell’appagamento che invece troverà nella sua capacità di immedesimarsi nella natura. Riuscirà a raggiungere la vera poesia nella capacità di confondere la propria voce con quella della natura, di trasfondere l’una nell’altra, di unirle in un solo coro.

Il D’Annunzio può essere definito il poeta dell’esteriorità. In lui tutto fu sentimento estetico, anche l’amore di patria fu soprattutto ammirazione per le bellezze naturali e per le nobili tradizioni del popolo italico. Le sue imprese di guerra furono dettate non dallo spirito di eroismo e dal desiderio di appagare una sua intima necessità, ma dalla infatuazione per il gesto in sé e per sé, quindi sempre da qualcosa di esteriore non di intimamente sentito. La sua poesia sfavillante di forme e di preziosismi incantò i lettori per qualche decennio. ma sotto la forma esteriore non nasconde dei contenuti profondi, anzi presenta, se non il vuoto addirittura, qualcosa senz’altro di molto superficiale e per niente umano. Non vi è posto nella sua poesia aristocratica per forma e per concezione se non per le figure eccelse, e per le sensazioni raffinate e fuori del comune, l’universale, tranne in quella che è la sua poesia migliore, è inutile cercarlo. La sua vita densa di avvenimenti è oltremodo movimentata e vuota, vuota di significato come è vuota di significato morale la sua poesia. Sono pochi i versi e le pagine, rispetto alla sua vastissima produzione, che parlano alla nostra anima che stabiliscono un contatto interiore tra noi e il poeta.

L’Angelini ha scritto che «a forza d’affinarsi e rarefarsi, D’Annunzio è riuscito a dire l’ineffabile, a scolpire il vento, a dipingere il brivido, a rendere il fruscio della luce, il palpito dello splendore, il tinnir di una pietra sotto il peso del cielo, è riuscito a dare con le parole l’odore di una foglia, il sapore di una fonte, la verità di un fiore che rumina la luce, dar risalto a certe forze animali o a stadi della vita elementari e cosmici. Sensibilità ricca di un potere perfettamente inventivo, estroso, esteso». E prima aveva già riconosciuto «in D’Annunzio le parole servono a suggerire quel che le parole non potrebbero mai dire; irradiazioni di efflusi, di visioni, di immagini, di sensazioni e suoni, diventate esse stesse invenzioni liriche…Fasciato della sua gioia, D’Annunzio riesce a comunicarcela e noi sentiamo il valore lirico di questa sua ebbrezza. Eppure rimaniamo scontenti. S’ha l’impressione che manchi in essa qualche cosa. E ne nasce un sospetto: prodigio o prestigio? Perché tutti gli elementi che abbiamo elencati, sono dei valori lirici senz’altro vivo sostegno che l’ebbrezza del poeta; e temiamo che tutta questa felicità d’eloquio, dovizia dì immagini. sensibilità per “se stante e sonante” non sia altro che vanità, abilità che si esaurisce in compiacenza vocale e immaginifica, in gusto del ritmo e dell’aerea modulazione, quasi piacere di vasaio al tornio». Il grande critico riassume quindi e rispecchia quello che è ormai da qualche anno l’atteggiamento della critica, anche se riconosce gli indubbi meriti del D’Annunzio.

Anche il Momigliano pur riconoscendo nei versi di Alcyone la poesia migliore del poeta abruzzese, ha avvertito questa mancanza dei concetti, questa inesistenza di riflessione, tanto che ha messo in evidenza come di queste liriche non sia possibile dare un’esposizione, riassumerle e sintetizzarle, sono come una musica che deve essere suonata per essere percepita e sentita, ma non può certo essere raccontata. «La trama della lirica di Alcyone non è logica né sentimentale, né descrittiva, né narrativa, ma solo e semplicemente musicale. Queste odi si potrebbero tradurre in un’armonia di note e di tinte, non in quadro di soggetto definito. La parola è scelta per le sue qualità musicali assai più che per le sue qualità figurative: perché il motivo che domina la fantasia del poeta è più che una visione, una cadenza…Di qui il fatto che queste liriche sembrano quasi senza soggetto: non se ne può fare un’esposizione …se ne può solo dare una designazione allungando con due o tre parole il titolo scelto dal poeta».

Ma la poesia del D’Annunzio sta nel fatto che il poeta non falsa il paesaggio, il quadro che ritrae, non vi aggiunge niente di materialmente suo, ma lo immerge in un’atmosfera di sogno, che lo trasfigura e lo rende quasi irreale. Ma noi lo sentiamo vivere e infatti vive con l’anima del poeta che si immedesima, che si fonde e si confonde con lo scenario che viene evocato. Leggiamo qualche verso di Meriggio, in cui il poeta appunto non è più egli stesso con il suo corpo fisico ma si fonde immedesimandosi con il paesaggio «E non ho più nome/. E l’alpi e l’isole e i golfi/ e i capi e i fari e i boschi/ e le foci che io ormai/ non han più l’usato nome/ che suona in labbra umane / Non ho più nome né sorte/ tra gli uomini, ma il mio nome/ è meriggio. In tutto io vivo/ tacito come la morte/ e la mia vita è divina».

Il Gargiulo con il suo saggio sul D’Annunzio mentre ha inteso condannare quanto vi è di falso e stentato in quella poesia, ha voluto mettere in  risalto appunto questa capacità diremmo magica del poeta di dissolversi nella natura, di confondersi con essa. Leggiamo qualche suo rigo a proposito dei paesaggi di Alcyone. «I paesaggi di Alcyone sono puri paesaggi: voglio dire che il sentimento del poeta si esaurisce nella visione e non si effonde durante o prima o dopo, per se stesso. Il paesaggio e l’anima che lo investe coincidono perfettamente. Il nostro poeta è qui un assoluto paesista. Solo i superficiali potrebbero chiedere che insieme con la visione del paesaggio il D’Annunzio esprimesse l’animo suo, il sentimento che il paesaggio gli suscita. Tale richiesta che vorrebbe essere richiesta di spiritualità, sarebbe in sostanza una richiesta “materiale”: si vorrebbe poter distinguere, diciamo così, tipograficamente dove il poeta esprime se stesso e dove esprime il paesaggio. Domanda insulsa…i paesaggi…parlano e il poeta tace». La presenza del poeta la si avverte solo da qualche suo intervento “ti loderò” o da qualche simile espressione riferita alla visione o qualche volta ancora il suo pensiero è rivolto a una figura femminile, che in se stessa resta però assente dal paesaggio. Per cui, conclude il Gargiulo: «Ogni elemento umano, per dir così, sparisce; ma diventa umana la natura. Lo spirito scende tutto nella materia; ma la materia diventa tutto spirito».

La voce di D’Annunzio
Luigi Pistone
Luigi Pistone
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