Tra autostima e dramma della coscienza: Otello e Amleto

Il tema dell’amore romantico si ritrova in un’altra tragedia della maturità di Shakespeare, Otello, ma se per Romeo e Giulietta rimane il dubbio sul fatto che i giovani innamorati siano o meno responsabili della loro catastrofe, in questo dramma, invece, la tragica morte di Desdemona si deve alla follia omicida di Otello, chiamato anche “il Moro”. Un atto che dimostra la drammatica debolezza interiore del Moro, che cade nella menzogna di lago, più per salvaguardare il proprio onore o, in parole più moderne, la propria autostima, che per vera gelosia nei confronti di Desdemona. Otello, infatti, dubita del sincero amore dell’amata perché si ritiene un soldato dai modi bruschi e poco raffinati ed è suquesta insicurezza che lago gioca le sue carte. Quando in realtà sono proprio le imprese del generale, le battaglie, gli assedi, le fortune e le giovanili avversità, ad aver fatto innamorare Desdemona: «Otello. Desdemona ascoltava ansiosamente il mio racconto. […] Io, allora, scelsi il momento favorevole e, abilmente, / riuscì a ottenere che mi pregasse / di farle il racconto completo della mia vita avventurosa. Naturalmente, accettai, / e molte volte la vidi piangere sulle sventure / che m’avevano colpito nella giovinezza. / Essa giurò che la mia storia era straordinaria, / “Sarebbe stato meglio” disse “che non l’avessi ascoltata mai”/ ma nello stesso tempo desiderava che Dio / l’avesse fatta nascere al posto di un uomo simile. / Mi ringraziò dicendo che se un mio amico / fosse stato innamorato di lei, / e io gli avessi insegnato a raccontarle la mia storia, / certo, essa gli avrebbe ricambiato il suo amore. / A queste parole, le aprii il mio cuore. / Essa si era innamorata di me / al racconto di tutti i miei pericoli, / e io l’amavo per la pietà che mi aveva dimostrato» (Otello, I, scena III, vv. 146-169).
Indubbiamente, il personaggio più amato e più carismatico del teatro shakespeariano è il principe dí Danimarca, Amleto. Per alcuni critici l’opera più originale della letteratura occidentale. L’opera, ha giustamente notato Harold Bloom, contiene tutto il teatro di Shakespeare: dramma storico, commedia, satira, tragedia, dramma romanzesco. Quando assistiamo a una rappresentazione di Amleto o leggiamo il testo, non ci occorre molto tempo per capire che il principe trascende il dramma. Amleto possiede qualcosa che richiede e fornisce una dimostrazione proveniente da una sfera aldilà dei nostri sensi. I desideri di Amleto, i suoi ideali e le sue ispirazioni, sono quasi fuori luogo nell’irriverente atmosfera di Elsinore. La coscienza è il suo tratto più saliente. Il principe è la figura più consapevole e perspicace concepita da Shakespeare. Amleto è un “Henry James” che è anche uno spadaccino, un filosofo destinato a diventare re, il profeta di una sensibilità ancora lontana da noi, propria di un’epoca futura. Il suo mondo è un crescente io interiore, che lui cerca di ripudiare celebrandolo, però, quasi di continuo, anche se in maniera implicita. La differenza tra lui e noi, i suoi eredi, non è di natura storica, perché anche in questo caso Amleto è molto lontano da noi, sempre un passo davanti a noi. L’incertezza è la particolarità della sua coscienza in continua crescita. Il principe non riesce a conoscere a fondo se stesso perché è un’onda di sensibilità, pensiero e sentimento che seguita ad avanzare pulsando. Amleto non ha alcun centro, è troppo intelligente, diversamente da Otello, per riconoscersi in un determinato ruolo. Meditando su questo aspetto, Harry Leving ha notato giustamente che Amleto è un dramma ossessionato dalla parola question (domanda, problema), usata ben diciassette volte, e dai dubbi sulla «fede nei fantasmi e nel codice della vendetta».
Rileggiamo il monologo centrale: «Amleto. Essere o non essere – questa è la domanda. / Se è più nobile per la mente sopportare / le sassate o le frecce dell’oltraggiosa fortuna, o prendere le armi contro un mare di guai / e combattendo finirli. Morire, dormire – / nient’altro – e con un sonno dire che poniamo / fine al male del cuore e ai mille / travagli naturali di cui la carne è erede. / Di questo groviglio mortale, è cosa / che deve farci meditare. È questo il pensiero / che dà alla sofferenza una vita così lunga. […] Chi porterebbe fardelli, grugnendo / e sudando sotto il peso della vita, se non fosse / che la paura di qualcosa dopo la morte, / la terra inesplorata dai cui confini / non torna il viaggiatore, paralizza la volontà / e ci fa sopportare i mali che abbiamo / piuttosto che fuggire verso quelli / che non conosciamo? Così la coscienza / ci rende tutti codardi, e così / la tinta naturale della risolutezza / è resa livida dalla pallida impronta / del pensiero, e imprese di grande / portata e momento mutano per questo / il loro corso e perdono il nome di azione» (Amleto, atto III, scena I, vv. 55-89, Feltrinelli, Milano 1995, tr. A. Lombardo, pp. 125-127). Il problema di Amleto, come per l’uomo contemporaneo, è sempre “Amleto”, perché Shakespeare gli ha dato la coscienza più ambigua e dilaniata che un dramma coerente possa sostenere. Amleto ha inaugurato il dramma dell’identità accresciuta che persino Pirandello e Beckett riuscirono soltanto a imitare, anche se con un tono più disperato, e che Brecht ha tentato invano di sovvertire. Forse si trova qui, come per i personaggi del teatro classico, la costante attualità di Amleto e di Shakespeare, ancora in grado di guidare e illuminare la coscienza dell’uomo.

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