Sembra uno scherzo ma la giustizia italiana è una delle cose meno giuste che ci siano. Frequente è subire una misura cautelare e poi essere assolto, normale veder passare gli anni per avere una sentenza e i costi sono ormai quasi inaccessibili per gran parte della popolazione.
Sbaglierò, ma una giustizia giusta ha magistrati imparziali, dura poco e costa altrettanto. Ha poi poche leggi chiare e non quel marasma di norme che, a star loro dietro, ci si consuma vista e salute.
Se poi abitualmente rapportiamo il sistema giustizia al livello di civiltà di una nazione, appare evidente che noi, civili, non lo siamo affatto.
La nostra giustizia è, anche, bizzarra. Non è difficile che corra su binari diversi e contrapposti. Può infatti accadere che se vai nelle mani di tizio, per esempio, hai un’ingiunzione in pochissimo tempo, ma se finisci nelle mani di caio e di sempronio, per vederti firmare un’ingiunzione occorrono gli stessi tempi occorrenti per una separazione, il che, lo dico per i non addetti ai lavori, è uno scandalo.
La nostra giustizia corre, poi, a velocità differenti, come si trattasse di freccia rossa e treni locali che fermino a ogni stazione: a Milano una causa dura tot tempo, la stessa causa, a Potenza, può durare quello stesso tot ma moltiplicato per dieci.
La nostra giustizia è beffarda. Accade che in un paio di anni porti avanti il 90 per cento della causa e che per il restante dieci ne occorrano altrettanti moltiplicato x, perché il giudice si dichiara oberato di lavoro.
La nostra giustizia, pertanto, è in perfetta linea con la burocrazia, scortese, indifferente, cinica. E questo a prescindere dalla buona volontà, dalla laboriosità, dal garbo di tanti operatori.
Per esperienza, decennale, maturata, posso dire che la giustizia la fanno andar bene i buoni magistrati, quelli imparziali, preparati e appassionati che, come una folata di vento costante, trascinano tutti gli altri con sé, col buon esempio, che rimane contagioso più di un virus.
Il cattivo esempio, invece, è meno prorompente, ma lavora come il diabete, in silenzio, senza apparire, ma corrodendo ogni giorno un organo, quel tanto che basta per risultare alla fine un vero killer, se non curato con certosina pazienza e se non si seguono regole ferree.
Si potrebbe osare e dire che la giustizia italiana è un malato terminale e che solo un miracolo la può salvare. Non c’è riforma che possa rivoluzionare un incancrenito sistema così ben radicato da risultare inattaccabile, finanche dai buoni esempi.
Il magistrato che lavora, infatti, può farlo serenamente solo se sta con magistrati che lavorino come lui; altrimenti diventa un ingombro, una spia del cattivo lavoro svolto dagli altri, quindi emarginato se non proprio discriminato. A meno che non si adegui ai ritmi da siesta degli altri.
In vita mia ho visto provvedimenti firmati in poche ore, ma basta una mano per contarli, e provvedimenti che ti fanno rodere il fegato nell’attesa. Ho visto uffici giudiziari licenziare una pratica in un decennio, e uffici giudiziari annullare le pendenze in men che non si dica (vedasi Tar di Basilicata, che rimane, però, un caso unico in Regione).
Allora non sono le leggi, i codici e i regolamenti, ma è l’uomo che fa buono un sistema o lo fa cattivo, e, fatalmente, se il nostro sistema è cattivo, non è difficile trovare responsabili, facendo salve quelle situazioni davvero fuori norma dove il lavoro sovrasta un esiguo, numericamente parlando, fattore umano.
In Italia di pubblico funziona bene poco o niente. Paghiamo, però, costi altissimi, con le tasse più alte del mondo e i servizi più cari e scadenti del mondo. Possiamo ritenerci fortunati soltanto perché a fronte di una legislazione strabordante possiamo vantarci di non rispettarla che in minima parte, il che non è un bene, ma completa il cerchio di un paese sostanzialmente incivile. Si può dire?
-Ormai l’hai detto.
-Io? Non ho detto niente, giuro. Scherzavo.